Cannabis e musica

Cannabis e musica

 

Se si vuole analizzare il binomio esistente fra la musica e la cannabis, ci sono due punti di vista. L’influenza che la cannabis ha sugli artisti e sulla loro musica e l’influenza che la cannabis ha sul fruitore di musica. Il secondo punto di vista è estremamente soggettivo, e dopo aver banalmente sottolineato una probabile amplificazione dell’esperienza sensoriale dovuta agli effetti della sostanza, resta poco da aggiungere.

O meglio: qualsiasi altra considerazione non può prescindere dal gusto musicale dell’ascoltatore. Dall’uso che fa della musica (come sottofondo o come esperienza di ascolto “totale”). Dalle modalità di consumo (in privato o a un concerto). E da una miriade di variabili indipendenti riconducibili alla sua personalità.


Peraltro naturalmente, esistono molti più ascoltatori che artisti. Ma solo i secondi hanno, in qualche caso lasciato una documentazione consultabile sul modo in cui la cannabis ha influenzato la loro musica. E lo hanno fatto o indirettamente tramite dichiarazioni pubbliche o direttamente tramite la loro arte. Occupiamoci dunque degli artisti.

Parliamo, qui, di consumo di marijuana, dal momento che per ora non conosciamo artisti che sono usi vaporizzare cannabis light prima di mettersi al pentagramma. Per il momento.


Per comodità divideremo questi artisti in tre gruppi: il primo gruppo è costituito da quegli artisti che hanno abbracciato l’erba come filosofia di vita. Nel secondo quegli artisti che più o meno sporadicamente attraverso la loro musica e la loro notorietà reclamano il loro diritto al consumo d’erba. Infine il gruppo di coloro che più o meno direttamente lasciano trapelare di usarla, anche quando fanno musica.


Nel primo caso è impossibile non cominciare da Bob Marley, naturalmente. Di lui sappiamo tutti che aderiva ferventemente al culto del Rastafarianesimo. Per farla molto, molto breve, i rasta sono convinti che sulla tomba di Re Salomone (capostipite della loro discendenza) crescesse proprio una pianta di marijuana. E che il suo consumo sia letteralmente sacrosanto e raccomandabile.

Fu tale l’adesione di Bob Marley a questo precetto che è impossibile separare l’uomo e l’artista dalla “ganja”. E non ne offendiamo la memoria quando diciamo che ne era perennemente sotto l’influsso. Anzi.

 

Ubbidendo alla sua ispirazione guidata ha portato il reggae alla diffusione mondiale odierna. E quando non è la forma (il ritmo lento ma sincopato, il controtempo, i bassi morbidi) a riverberare gli effetti della cannabis, sono i contenuti. Le allusioni o rivendicazioni al consumo d’erba nei suoi testi sono incalcolabili: un suo album, “Kaya” (uno dei millemila nomi della marijuana) è interamente dedicato.


In genere l’erba vi è trattata come il filo diretto con Dio, ma non mancano situazioni più prosaiche. In 3 O'Clock Roadblock (da Natty Dread) si racconta di un Marley costretto a gettare via l’erba (rammaricandosi molto) alla vista di un posto di blocco notturno. Ma questo succede anche a chi rasta non è.


Fuori dallo studio di registrazione Bob Marley ha infranto il tabù dell’artista che si fa le canne non solo fumando davanti a qualunque telecamera, ma soprattutto svelando le sue risposte nude e crude. La malizia o la morbosità dell’intervistatore di turno in anni in cui, almeno in occidente, lo stigma sociale sui fumatori era ancora molto forte (e la legge molto repressiva).


E’ da ascrivere anche alla sua perseveranza se in Jamaica è partito quel lento processo di concessione dei diritti al consumo per coloro che si professano rastafariani.

Morto il capostipite, sull’isola una lunga schiera di epigoni ne ha raccolto per così dire il testimone. Tutti rastafariani convinti e praticanti e naturalmente accaniti consumatori di cannabis, inclusi alcuni fra i non pochi figli di Marley. E anche se più nessuno ne è stato all’altezza (almeno artisticamente) è giusto citare quantomeno: Buju Banton (che però dall’erba è passato al traffico di cocaina e al carcere). Luciano (al secolo Jepther McClymont), Sizzla Kalonji, e Anthony B.


Fuori dall’isola tocca includere Snoop Dogg, famoso rapper losangelino. Fino al 2012 era semplicemente un artista che fumava davvero tante, tante canne (e dunque teoricamente da collocare nel nostro secondo gruppo). Poi è giunto a una svolta proprio in seguito a un viaggio in Jamaica.

Con relativa conversione al rastafarianesimo, e a riprova di ciò oggi si fa chiamare Snoop Lion (il leone è un cardine dell’iconografia rasta).

E anche solo per amor di bandiera includiamo il nostro Alborosie (nome d’arte di Alberto D'Ascola). Sicilianissimo artista reggae che nel 2001 lascia l’Italia per la Jamaica, di cui ottiene la cittadinanza, e dove continua la sua carriera scegliendo di confrontarsi con la cultura rastafariana.


Ed eccoci al secondo gruppo. Dei suoi membri potremmo dire che rispetto ai primi praticano un culto pagano della cannabis. Una menzione d’onore spetta senza dubbio ai Cypress Hill. Famoso gruppo rap hip-hop statunitense i cui membri hanno origini messicane, da sempre fautori e sostenitori del libero commercio di erba per fini terapeutici o ricreazionali.

Pezzi come Hits from the bong, Stoned Is the Way of the Walk e Dr. Greenthumb lasciano poco spazio all’immaginazione. “Dr. Greenthumb” (“Dottor Pollice verde”) è anche uno degli pseudonimi sotto cui si cela l’identità di Louis Freese, membro dei Cypress Hill più noto come T-Real.

Per dimostrare che la loro campagna di sensibilizzazione all’utilizzo della cannabis non era una semplice posa da provocatori, T-Real ha aperto a Los Angeles un punto vendita autorizzato di marijuana.

Il nome? “Dr. Greenthumb Dispensary”. Ovviamente.


Potremmo continuare coi Green Day, notissima rock band californiana. Il cui leader Billie Joe Armstrong è stato un fan dell’erba fin dall’adolescenza al punto da tirarsela dietro nel nome della band: “green day”. In gergo sta per “un giorno passato a fumare”.


Fra gli italiani dobbiamo citare per forza gli Articolo 31, che hanno fatto tutto tranne che nascondere la loro passione per la cannabis. Musicalmente parlando basterà citare “Maria” (che potremmo definire il loro inno): canzone in cui giocando col doppio senso si narra di una storia d’amore per l’erba. Lo stesso discorso, al netto delle divergenze stilistiche, si può fare per i 99 Posse, che hanno fumato sopra sotto dietro e davanti al palco.


Citare tutti i membri del nostro terzo gruppo è semplicemente una sfida per dattilografi: le rock star -diciamolo- si sono fumate di tutto, dal rosmarino all’og kush. Marilyn Manson s’è conquistato il premio-simpatia dichiarando di aver fumato polvere d’ossa umane. Rimanendo nei limiti dell’accettabile l’apice dal punto di vista mediatico l’hanno raggiunto i Beatles (guarda caso). Col famoso spinello a Buckingham Palace.


E tuttavia il primato (forse) è del insospettabile Louis Armstrong, che nel 1932 suona Muggles (così chiamavano l’erba i jazzisti, quando ancora era legale). A catena sono decine le canzoni dedicate all’erba da artisti che non ne disdegnano il consumo: da Cab Calloway a 50 Cent passando per Ray Charles e Nina Simone. Tutti neri?

E allora beccatevi Steppenwolf, Van Morrison, i Black Sabbath (ma va’?) e Neil Young. Tutti famosi per essere stati almeno una volta, testimonial della Cannabis.


In Italia, soprattutto recentemente, un nuovo fronte di giovani artisti prevalentemente hip-hopper, sta… rinverdendo i fasti di 99 Posse e Articolo 31. Ma noi scegliamo di chiudere con il vecchio Stefano Rosso di Una storia disonesta. A molti nome e titolo non diranno granché, ma nel Belpaese i versi “Che bello/due amici una chitarra e uno spinello” sono forse più noti del primo articolo della Costituzione.

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